Francesco Buzzella, Presidente di Confindustria Lombardia, sottolinea le caratteristiche di un territorio molto radicato e allo stesso tempo aperto al mondo, che ha bisogno di dialogare sempre per favorire lo scambio di informazioni necessario a rafforzare le aziende: “Poter avvicinare gli imprenditori della pianura attraverso un network è un’interessante opportunità”
Le aziende hanno bisogno di dialogare, tra loro e con le istituzioni. Solo dal confronto diretto possono scaturire nuove idee di produzione, di mercato e anche di welfare. Non solo, è sempre più urgente condividere la proprie esperienze per saper affrontare scenari complicati che possono diventare particolarmente complessi se affrontati da soli. Ne è convinto Francesco Buzzella, Presidente di Confindustria Lombardia, che abbiamo incontrato in occasione dell’avvio di Pianura Network e con il quale abbiamo affrontato tematiche molto sensibili in questo periodo storico per il mondo degli imprenditori e, di conseguenza, per tutto il Paese. Perché, come dice Buzzella, “non ho mai visto un’azienda andare bene in un Paese che va male“. Sono due facce della stessa medaglia che hanno bisogno di dialogare per sostenersi a vicenda. Da qui, l’importanza di una rete, di un network in un territorio variegato e fondamentale come la pianura lombarda.
Pianura Network intende favorire una rete tra aziende ma anche una collaborazione pubblico-privato, un dialogo tra le istituzioni attraverso convegni nei quali approfondire le tematiche più sentite in pianura. Lei crede che la politica debba ascoltare di più gli imprenditori?
Sicuramente sì. Quando parla l’imprenditoria e dà suggerimenti può essere che si esprima nell’interesse delle imprese, però non bisogna mai dimenticare che le aziende hanno sempre interesse che il Paese vada bene, questo al di là dell’industria. Perché – tanto per essere chiari – non ci sarà mai nessuna industria che va bene in un Paese che va male. Faccio un esempio recente sollevato dal Presidente Nazionale di Confindustria, Carlo Bonomi: la questione pensioni. Bisogna essere prudenti. Noi, come industria, abbiamo solo interesse ad accorciare l’età pensionabile. I dati delle assenze sul posto di lavoro ci dicono che oltre i 60 anni le malattie e gli infortuni sono più di quelli messi insieme nella fascia 20-60. Però diciamo no perché il sistema pensionistico e i conti pubblici diventano non più sostenibili e lo diciamo nell’interesse del Paese. Quindi la politica deve ascoltare i suggerimenti delle imprese a livello sia nazionale sia territoriale, perché comunque l’impresa è sempre legata in qualche modo a un territorio, dà lavoro, sostiene le famiglie di quel territorio, quindi ha davvero una funzione sociale, oltre che economica.
Fulcro di Pianura Network sarà la Fiera di Treviglio, uno spazio di matching tra aziende, in una posizione strategica rispetto alla pianura per valorizzare il cuore pulsante dell’economia lombarda. Quanto è forte il legame tra imprenditori e territorio? Ha ancora un valore in un mondo globalizzato e sempre più votato all’export?
L’export vale circa 1/3 del Pil italiano, quindi è unacomponente sempre molto importante per essere aperti al mondo anche se ci troviamo nella pianura lombarda, ma il radicamento sul territorio ha senz’altro un valore forte in questo senso: ci sono dei punti, chiamiamoli dei melting pot, dove a livello territoriale uno scambio di informazioni può aiutare a rafforzare quelli che vengono chiamati distretti/filiere. Perché sono davvero un punto di forza dell’Italia. In una certa area – nel nostro caso la pianura – si creano delle importanti sinergie tra aziende. Gli esempi locali sono emblematici: se penso al distretto/filiera della cosmesi nel Cremasco, difficilmente chi fa una certa attività qui, potrebbe farla da un’altra. Perché? Perché in quel distretto c’è il fornitore del macchinario che se si rompe viene ad aggiustarlo il giorno stesso, c’è anche quello che mi procura il colorante e se mi serve una modifica cromatica la posso chiedere subito, e con lui posso anche già programmare il prossimo anno per una novità. Quindi si creano delle sinergie tra aziende che producono cose diverse, e di proprietà diverse ma che lavorano come in un network. Sotto questo profilo, il fatto di poter avvicinare degli attori attraverso un network è un’interessante opportunità.
INDUSTRIA 4.0 Ora vanno coinvolte nel cambiamento le realtà più piccole
Crede che Pianura Network possa essere d’aiuto a un territorio dove alcuni distretti e filiere sono già ben definiti?
Un network aiuta sempre a mettere in evidenza tipologie lavorative che magari con quel processo possono fare anche altre cose e quindi essere d’aiuto alle aziende del territorio. Anche perché spesso ci sono aziende che si riconvertono proprio per questa opportunità di collaborazione. Oppure, per superare un mercato in crisi, cambiano produzione e il territorio non è informato. È vero che oggi c’è Internet, ma un imprenditore sul suo sito o sui social cosa mette? Chi è. E quello che fa. Ma lì dentro non c’è quello che ha in mente e che vorrebbe realizzare. Nell’incontro invece si va più nel profondo rispetto a una pagina web. Se io penso che su un territorio vasto come la pianura si possa costituire un network, è importante, anche solo per il dialogo tra aziende. Perché noi siamo una società che deve dialogare, poi dal dialogo nascono davvero delle idee, oppure c’è già qualcuno che ha un’idea ma non sa come realizzarla e quindi il network facilita indubbiamente la collaborazione tra imprese, sviluppando il discorso poi di filiera e di distretto industriale.
Digitalizzazione e innovazione sono due volti di uno stesso processo che sta correndo. Quanto sono preparate a questa sfida le aziende della Lombardia?
Indubbiamente hanno fatto già dei passi importanti verso la digitalizzazione e l’innovazione. L’industria 4.0 ha dato una bella spinta con l’incentivo fiscale a muoversi in quella direzione. Cosa c’è ancora da fare? Cercare di tirare a bordo le realtà più piccole, quelle che hanno maggiore difficoltà a cambiare. Le aziende più grandi dovrebbero fare un po’ da cinghia di trasmissione per riuscire, sempre parlando di distretti, non solo a migliorare alcuni componenti di quella filiera, ma iniziando a chiedere certificazione di un certo modo di lavorare. In questo modo ti obbligano a seguire una determinata strada che, magari un po’ per pigrizia e un po’ per tradizione, alcune aziende non vogliono perseguire. I grandi in questo campo sono un po’ più avvantaggiati perché sono strutturalmente più solidi anche a livello organizzativo, i più piccoli sono quelli che forse hanno invece più necessità di un aiuto.
Oggi non può esserci sviluppo senza sostenibilità. In un territorio come la pianura padana, soggetto all’inquinamento dell’aria, questo è ancora più urgente e fondamentale. Cosa ne pensa?
Penso che ci siano vari piani di sostenibilità da considerare; perchè c’è una sostenibilità ambientale e pure una sostenibilità sociale ed economica. Mai dimenticare anche le altre. Di sicuro bisogna andare verso una transizione, ma io ritengo che sarà un processo di decenni, non pochi anni. Pensiamo al passaggio dalle nafte pesanti al gas per l’industria, una trasformazione partita negli anni ’70. Nel ‘72 nasce la prima rete del metano in Italia, oggi siamo nel 2022: son passati cinquant’anni e non abbiamo ancora completato la rete del metano che, tra tutte le fonti fossili, è quella “meno” inquinante. Quindi non è pensabile in 5-10 anni fare la transizione, ne serviranno almeno 30 o 50. In quel lasso di tempo noi potremmo fare una transizione socialmente sostenibile. Cosa vuol dire? Che riusciremo a mantenere la qualità della vita che ci siamo dati. Perché se io avvio una transizione ambientale che riduce un pochino l’inquinamento ma mi fa vivere al freddo, abbiamo fatto un buon affare? Probabilmente no. Quindi la vera sfida qual è? A parità di qualità della vita, avere un minore impatto ambientale e quindi fare una transizione anche socialmente ed economicamente sostenibili. Dobbiamo cambiare gradualmente – in tutto il mondo, non solo in Europa – perché si possa stare tutti meglio.
Il 100% DEL LITIO dalle terre rare. Così sull’elettrico comanda la Cina
L’energia, tra costi e inquinamento, spaventa per tutti i motivi noti, ma non spaventa di più il fatto che quando si trova una soluzione ci sia sempre qualcuno contrario a realizzarla sul proprio territorio?
C’è talmente tanta negatività sul tema che a un certo punto c’è chi ha pensato che potessimo vivere solo di aria. Ricordiamo tutti il referendum sul nucleare: no categorico. Poi referendum sulle trivelle per estrarre il gas: no anche su quello. Oggi ne paghiamo le conseguenze. C’è un effetto nimby assolutamente demenziale.
Così ci tocca importare lo shale gas – che è tra le fonti meno sostenibili – dagli Stati Uniti e probabilmente tra poco anche dall’Algeria. In quest’ultimo caso, c’è pure un problema, perché il Transmed, il gasdotto che dall’Algeria attraverso la Tunisia arriva a Mazara del Vallo, non è abbastanza grande per portare il gas. E così l’Algeria ha detto: il gas te lo do però vieni a prenderlo con le navi, quindi altro inquinamento. Tra l’altro, lo shale gas è un po’ più inquinante dell’estrazione tradizionale, perché bisogna spaccare le rocce fino a 2.000 m di profondità e buttar sotto additivi. Probabilmente anche tanto gas se ne va in atmosfera con un effetto serra pare a 50 volte ogni tonnellata di CO2. Quindi a noi va benissimo importare questo gas con le navi e votiamo contro le estrazioni sul nostro territorio in modo pulito. Quindi gli altri fanno il diavolo che vogliono, inquinando 100 volte quello che inquineremmo noi. Ricordiamoci che l’atmosfera alla fine è una sola, quindi se anche non inquini qui ma gli altri inquinano 100 volte te, che cosa hai ottenuto?
Questo dal punto di vista dell’opinione pubblica e quindi delle conseguenti scelte politiche, invece le aziende come stanno procedendo con l’efficientamento energetico?
Le imprese possono fare sicuramente tanto, però non bisogna mai confondere le necessità dell’industria o di un certo tipo di industria energivora con l’esigenza di un privato. Pensiamo ai pannelli fotovoltaici, alcune aziende dovrebbero coprire un’area almeno pari a tutto lo stabilimento. E poi sarebbe una fonte energetica estiva e diurna, ma un’azienda ha bisogno del calore per produrre anche di notte e d’inverno, non può fermare gli impianti. Per accendere un forno di un’acciaieria ci vorrebbe un mese. Sole e vento sono fonti rinnovabili troppo meteopatiche. Vanno messe perché aiutano, ma non possiamo pensare che siano risolutive. Ad esempio, un’acciaieria può avere i consumi pari al 5% della Lombardia. Alcuni processi produttivi sono basati sul calore. Per una nazione trasformatrice come l’Italia avere l’energia a prezzo normale è fondamentale. Non dimentichiamoci che d’estate l’Italia consuma circa 100 milioni di metri cubi al giorno, ma d’inverno arriviamo anche a 400 milioni di metri cubi al giorno: ecco da dove deriva la preoccupazione per questo inverno. Gli stoccaggi valgono 15 miliardi circa di metri cubi su 76 miliardi consumati in Italia. Quindi, concludendo, si possono fare tante cose per migliorare, ma noi del gas ne abbiamo bisogno ancora per quarant’anni. Non dimentichiamo inoltre che le aziende più energivore sono anche i pilastri di filiera. All’interno delle filiere produttive abbiamo tante PMI, ma quelle più patrimonializzate, più strutturalmente solide, quelle più robuste nelle quali sono stati investiti miliardi, sono proprio quelle energivore.
Noi velocizziamo la transizione, intanto il resto del mondo va per la sua strada. Così dobbiamo delegare la produzione del vetro alla Cina, dell’acciaio agli Stati Uniti, della carta all’India, perché noi non abbiamo l’energia per produrre. C’è qualcosa che non torna…
Ma certo. E ora stiamo facendo lo stesso errore con le auto elettriche. Recentemente sono stato a un’assemblea di industriali dove erano presenti anche gli amministratori delegati di Toyota e Iveco. Lì è stato detto che stiamo andando avanti anche con altri progetti per seguire la linea europea che c’è stata indicata del “Fit for 55”. Ok, quindi stiamo facendo i “compiti a casa”, ma poi voglio vedere se tra 10 anni ci saranno le colonnine elettriche col cablaggio in tutta Italia e in tutte le case. E alla domanda: ma da dove arriva il litio per le batterie (il 90% di un’auto elettrica è rappresentata dalle batterie)? La risposta è stata: il 100% dalle terre rare, quindi 100% dalla Cina. Il giorno in cui la Cina invaderà Taiwan e noi alzeremo la mano contro, ci diranno: state zitti altrimenti non vi do più il litio e non puoi più costruire le macchine. Lo stesso errore che abbiamo fatto con Putin: ma chi va a mettersi nelle mani di un fornitore solo? È una follia mettersi nelle mani dei cinesi per tutto il comparto dell’auto. L’auto è un pilastro dell’industria. Sono due i pilastri dell’industria: auto e costruzioni. Se perdiamo totalmente l’autonomia su uno di questi pilastri, viene giù tutto il resto.
Non c’è solo una sostenibilità ambientale rispetto ai processi produttivi, ormai il tema è pervasivo e riguarda anche la gestione aziendale e l’ambiente di lavoro. Quanto c’è ancora da migliorare su questo aspetto?
Abbiamo fatto passi importanti, perché quando vengono inaugurati nuovi stabilimenti vedi che si pensa anche a spazi per attività che trent’anni fa neanche si immaginavano: la palestra, l’area ricreativa, il nido, la cucina, la sala riunioni. Anche qui c’è stato un percorso storico da considerare: negli anni del dopoguerra abbiamo vissuto l’integrazione società-azienda perché i Comuni non offrivano servizi pubblici. Poi, a un certo punto, c’è stato un distacco molto forte voluta dal sindacato per distinguere la vita del dipendente da quella dell’azienda. Oggi invece c’è un po’ un ritorno alla visione che l’azienda possa offrire anche dei servizi ai dipendenti sotto certi aspetti veniamo anche un po’ delegati sul welfare. Sotto questo profilo c’è ancora strada da fare, però vedo un cambio di trend.
Stando sempre sul tema del capitale umano. Quanto è diventato difficile trovare personale competente per le aziende? E come si concilia questa necessità con il fenomeno del “quiet quitting”, cioè questo nuovo modo dei giovani di conciliare la vita con la carriera in favore del tempo libero?
Trovare figure specializzate è sempre difficile, in Italia è un problema di denatalità e di percorsi formativi professionali. Più ampio, invece, è il fenomeno dei giovani che tendono a mettere di più al centro la propria vita privata, anziché impostare tutto su lavoro e carriera. Ma, come al solito, in medium stat virtus: c’è il lavoro e c’è la famiglia, quindi è giusto che uno bilanci le sue priorità. Vale anche il contrario, riesco a metter su famiglia grazie al lavoro. Alla fine il tema è mettere un po’ in fila le proprie sensibilità. Diverso invece è dire “non lavoro” e magari mi aspetto che qualcuno mi mantenga: affidarsi totalmente al reddito di cittadinanza o comunque a forme d’impiego per cui lavorare diventa quasi un optional, non è corretto. Siamo una Repubblica fondata sul lavoro. Ecco, il reddito di cittadinanza ha raggiunto un po’ l’apice di questa cosa, per cui ti do un reddito anche se alla fine non trovi lavoro. Nasceva come politica attiva del lavoro, peccato che gli stessi che lo prendevano 3 o 4 anni fa sono gli stessi che lo prendono adesso: qualcosa è andato storto.
In Lombardia sembra che le infrastrutture non bastino mai. Il tessuto aziendale è talmente vasto che richiede sempre nuove vie per merci e lavoratori. Il problema dei tempi: quando l’infrastruttura è pronta, l’opera rischia di essere già insufficiente.
Premesso che ogni area della Lombardia è diversa, alcune sono più infrastrutturate, altre come il cono sud-est lo sono meno, cosa bisogna fare? Le opere! Io dico sempre che se c’è il dubbio di fare un’opera, piuttosto è meglio farla. Sono più gli aspetti positivi nel fare un’infrastruttura che nel non farla, basta vedere cosa è successo con la Tem. Prima che aprisse il casello di Paullo non c’era nulla a Spino d’Adda, oggi ci sono 3.000 posti di lavoro creati in pochi anni grazie alla nuova infrastruttura. Un po’ come con la Brebemi. Tra l’altro le infrastrutture di oggi non sono più quelle degli anni ‘70 quando si tiravano su i piloni in mezzo al paesaggio. Oggi quando uno cerca la tangenziale esterna neanche la vede perché è in trincea. Una strada che puoi realizzare anche con sottopassi per il rispetto della fauna e alti standard ambientali. La Lombardia è la locomotiva dell’Italia perché fa quasi un quarto del Pil del Paese, quindi se mancano le infrastrutture diventa un problema per tutti, bisogna lasciar correre chi può farlo perché deve anche tirare chi fa più fatica.