LA PRESA DI POSIZIONE
L’Italia chiede una revisione delle scadenze imposte dall’UE per lo stop ai motori endotermici nel 2035, proponendo i biocarburanti come alternativa agli e-fuels. Il dibattito coinvolge diversi settori industriali e associazioni, tra cui Confindustria e FederAuto, che criticano la mancanza di neutralità tecnologica nelle politiche europee e l’esclusione dei biocarburanti dai piani per la decarbonizzazione
Emanuele Orsini, presidente di Confindustria: “Il 2035 non può essere l’anno dello stop all’endotermico
e l’industria italiana dirà questo”
L’ultimo anno di mandato del Consiglio dell’Unione Europea uscente è stato caratterizzato da un costante e acceso dibattito, incontri e indirizzi sul ‘futuro green’ del Vecchio Continente. Preso atto della necessità di addivenire a una rapida soluzione che possa porre fine alle emissioni nell’aria di agenti inquinanti, resta da capire come questo possa avvenire tenendo conto delle posizioni di tutti gli Stati membri, Italia compresa. Sul tema del 2035, infatti, la voce nazionale pone interrogativi importanti sulla data fissata dall’Unione per lo stop al motore endotermico e, oltre al Governo, sono diversi gli enti e associazioni di settore a ribadirlo, compresa Confindustria che, per voce del suo presidente Emanuele Orsini, preannuncia una battaglia. “La scadenza deve essere spostata perché non esiste in nessun posto al mondo che le tecnologie si supera no abolendole. Le tempistiche giuste devono avere il proprio corso. Noi non siamo contrari alle auto elettriche, bisogna però tenere ben presente che ci sono tre questioni: i costi dell’elettrico sono più alti, le infrastrutture e il fatto che le persone se le possano permettere. Il 2035 non può essere l’anno dello stop all’endotermico e l’industria italiana dirà questo. Non diciamo no all’elettrico, tutte le tecnologie vanno benissimo, ma dobbiamo vedere il censimento del parco auto Paese per Paese”.
Il risvolto della medaglia degli e-fuels
è il proibitivo costo di produzione
E se fino a giugno scorso l’Italia non abbia ricevuto un vero e tassativo diniego, occorre sottolineare come le argomentazioni prodotte non siano però neanche state prese in vera considerazione da Frans Timmermans, e dai fautori dell’eliminazione graduale dei combustibili fossili e il mantenimento degli accordi di Parigi. Da un lato Germania e Islanda con gli electrofuel, dall’altra la posizione di casa nostra a caldeggiare l’equiparazione dei biocarburanti di cui, grazie all’Eni, il nostro Paese è produttore. Ma quale è la differenza? Gli e-fuels sono carburanti sintetici a impatto zero prodotti combinando chimicamente idrogeno e anidride carbonica e sono ottenuti da un processo di elettrolisi dell’acqua allo scopo di produrre idrogeno da miscelare poi con la Co2 nell’aria. Il combustibile liquido e puro così ottenuto è quindi pronto per alimentare i motori a scoppio. Sebbene il processo venga ritenuto “a impatto zero” – perché ottenuto sfruttando elettricità da fonti rinnovabili – e di rapido inserimento sul mercato grazie alla compatibilità delle infrastrutture, vi sarebbero due aspetti contrapposti di cui tenere conto. Da alcuni studi, infatti, emergerebbe che gli e-fuels consentano di eliminare anche la produzione del particolato, tra i più pericolosi tra gli inquinanti dell’aria. Il risvolto della medaglia, però, è il proibitivo costo di produzione (oltre che limitato e impattante sul fabbisogno idrico). Dall’altra parte della barricata, i biocarburanti prodotti dalle biomasse (cioè da scarti organici generati da cibo, piante e animali, dalla filiera dell’industria e dall’attività agricola e forestale) che sarebbero principalmente di due tipi: bioetanolo e biodiesel. Il primo si ottiene da un processo di fermentazione delle biomasse in cui microrganismi metabolizzano gli zuccheri vegetali e producono etanolo che, come sappiamo, in basse percentuali è già presente nelle benzine attualmente in commercio. Il secondo, invece, è ottenuto mediante un processo chimico grazie a cui i grassi animali, quelli da cucina e gli oli vegetali vengono portati a reazione con il metanolo alla presenza di un catalizzatore che ne accelera l’azione. Quanto così ottenuto è un prodotto grezzo poi raffinato per l’utilizzo finale.
“È ormai acclarato che l’unica strada per ottenere una decarbonizzazione completa richiede l’impiego di tutti i vettori rinnovabili”
Saranno 7 milioni circa le classi Euro 4, Euro 5 ed Euro 6 circolanti nel 2030, cioè il 20% del parco auto in Italia
In alcuni recenti dibattiti, i detrattori del Governo hanno sostenuto la tesi della pericolosità di sottrarre terreno e risorse all’agricoltura per la produzione dei biocarburanti: di fatto tesi immotivata, vista la natura totalmente diversa del prodotto di riferimento che, al di là del nome, nulla ha in comune con quello proposto alla UE. Anche Massimo Artusi, presidente di FederAuto, non accoglie favorevolmente l’orientamento, palesando perplessità sull’orientamento nato dalla rielezione di Ursula Von der Leyen alla guida della Commissione europea. “Nell’ambito di dichiarazioni programmatiche che in materia di Green Deal Automotive sono apparse sommarie e nelle quali, si noti bene, il trasporto merci e la logistica sono del tutto assenti (nemmeno un vago accenno), sottolinea Artusi. “Vengono prima riconfermati gli irrealistici target per lo stop ai motori endotermici e viene poi limitata ai carburanti sintetici (gli e-fuel graditi ai tedeschi) la timida apertura alla neutralità tecnologica concessa per le autovetture. Eppure, è ormai acclarato che l’unica strada per ottenere realisticamente una decarbonizzazione completa ed effettiva del trasporto richiede l’impiego di tutti i vettori rinnovabili, a partire dai biocarburanti (riguardo ai quali l’Italia è all’avanguardia, tecnica e produttiva, e che ci consentirebbero l’indipendenza energetica). I biocarburanti, pur esprimendo l’esempio più virtuoso di economia circolare, vengono inspiegabilmente e del tutto ignorati”. Oltre a sottolineare come l’approccio ideologico generi nei fatti scelte non funzionali per l’economia continentale, c’è poi da valutare come questa fonte sarebbe prontamente disponibile sul mercato senza che la filiera logistica debba incorrere in gravosi investimenti per l’adeguamento degli impianti o dei mezzi di trasporto. Sarebbe altresì compatibile con la tecnologia adottata dai motori di recente e ultima generazione che non vedrebbero alterate le prestazioni. A tal proposito, proprio l’Eni – tra l’altro con una importante, favorevole campagna estiva – nei mesi scorsi ha lanciato il carburante HVO prodotto con 100% di materie rinnovabili e di scarto ad un costo al litro pari a quello del gasolio tradizionale. Ma allora, perché l’Unione Europea non ha preso in considerazione la proposta? Preso atto di un altrettanto elevato costo di produzione (proprio come per gli e-fuels), talune ricerche, infatti, avrebbero evidenziato che i biodiesel non azzererebbero del tutto le emissioni di Co2 e nel contempo sarebbero utilizzabili solo su vetture più recenti, ovvero quelli indicati nelle classi Euro 5 ed Euro 6 e solo in alcuni casi Euro 4 (a seconda del modello di vettura) con una quota che nel 2030 potrebbe attestarsi a quasi sette milioni di veicoli, cioè il 20% del parco auto circolante nel nostro Paese. Una quota per niente sottovalutabile, se solo si prendesse politicamente atto che la mobilità del futuro potrebbe necessitare di diverse fonti di approvvigionamento.